domenica 15 aprile 2012

Narrazioni: letteratura


Letteratura



Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s'era fatto veder per aria, doveva supporre tutt'altro che una così benigna noncuranza, stette un pezzo senz'altro pensiero o, per dir meglio, senz'altro studio, che di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d'aver le loro; ma c'eran due gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un segretario, perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata, come si dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo: lo scritto è un altro par di maniche. Era dunque costretto a mettere un terzo a parte de' suoi interessi, d'un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a que' tempi non si trovava così facilmente; tanto più in un paese dove non s'avesse nessuna antica conoscenza. L'altra difficoltà era d'avere anche un corriere; un uomo che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e darsi davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili a trovarsi in un uomo solo. Finalmente, cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, credé bene di fare accluder la lettera per Agnese in un'altra diretta al padre Cristoforo. Lo scrivano prese anche l'incarico di far recapitare il plico.

[…]

Ma per avere un'idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato. Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell'arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l'informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell'altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c'è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po' a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt'altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa.






I peggiori anni furono i primi, quando la Compagnia Fluviale lo nominò scrivano della Direzione Generale, che sembrava un lavoro inventato su misura per lui. Fu Lotario Thugut, vecchio maestro di musica dello zio León XII, a consigliargli di dare al nipote un impiego in cui dovesse scrivere, perché era un consumatore instancabile di letteratura all’ingrosso, anche se non tanto di quella buona quanto della peggiore. Lo zio León XII non fece caso alla precisazione sulla cattiva qualità delle letture del nipote, perché anche di lui Lotario Thugut diceva che era stato il suo peggior allievo di canto e però faceva piangere persino le lapidi dei cimiteri. Comunque, il tedesco ebbe ragione in quello cui meno aveva pensato, ed era che Florentino Ariza scriveva qualsiasi cosa con tanta passione che perfino i documenti ufficiali sembravano d’amore. I manifesti d’imbarco gli uscivano rimati, per quanto si sforzasse di evitarlo, e le lettere commerciali avevano un afflato lirico che toglieva loro autorità. Lo zio in persona gli comparve davanti un giorno in ufficio con un pacchetto di corrispondenza che non aveva avuto il coraggio di firmare come sua.
«Se non sei capace di scrivere una lettera commerciale, andrai a raccogliere la spazzatura del molo» gli disse.
Florentino Ariza accettò la sfida. Fece uno sforzo supremo per imparare la semplicità terrena della prosa commerciale, imitando modelli di archivi notarili con tanta applicazione come prima faceva con i poeti di moda. Quella era l’epoca in cui passava le sue ore libere al Portico degli Scrivani ad aiutare gli innamorati implumi a scrivere i loro biglietti profumati, per scaricare il cuore di tante parole d’amore che gli restavano inutilizzate nei manoscritti doganali. Ma dopo sei mesi, per quanto si fosse dato da fare, non era riuscito a torcere il collo al suo cigno indurito. Così, quando lo zio León XII lo riprese per la seconda volta, lui si diede per vinto, ma con una certa alterigia.
«L’unica cosa che mi interessa è l’amore»disse.
«La cosa brutta» gli disse lo zio «è che senza navigazione fluviale non c’è amore».
[…]
Il dramma di Florentino Ariza finché fu calligrafo della Compagnia Fluviale del Caribe era di non poter evitare il lirismo, perché non la smetteva di pensare a Fermina Daza e non imparò mai a scrivere senza pensare a lei. Poi, quando lo passarono ad altri incarichi, gli avanzava tanto amore dentro che non sapeva cosa farne, e lo regalava agli innamorati implumi scrivendo per loro lettere d’amore gratuite al Portico degli Scrivani. Ci andava dopo il lavoro. Si toglieva la finanziera con i suoi gesti parsimoniosi e l’attaccava allo schienale della sedia, si metteva le mezze maniche per non sporcare quelle della camicia, si sbottonava il gilè per pensare meglio, e a volte fino a molto tardi di notte rianimava i derelitti con delle lettere da matto. Una volta ogni tanto incontrava una povera donna che aveva un problema con un figlio, un veterano di guerra che insisteva a reclamare il pagamento della sua pensione, qualcuno cui avevano rubato qualcosa e voleva lamentarsi davanti al governo, ma per quanto si sforzasse non poteva accontentarli, perché l’unica cosa con cui riusciva a convincere qualcuno era con lettere d’amore. Neanche faceva domande ai clienti nuovi, perché gli bastava guardarli nel bianco degli occhi per farsi carico del loro stato, e scriveva fogli su fogli di amori calpestati, usando la formula infallibile di scrivere pensando sempre a Fermina Daza e a nient’altro che a lei.
Il suo ricordo più gradito di quell’epoca fu quello di una ragazzetta molto timida, quasi una bambina, che gli chiese tremante di scriverle una risposta a una lettera irresistibile che aveva appena ricevuto e che Florentino Ariza riconobbe come scritta da lui il pomeriggio precedente. Rispose con uno stile diverso, concorde con l’emozione e l’età della bambina, e con una calligrafia che sembrava anch’essa di lei, perché sapeva fingere una scrittura per ogni occasione secondo il carattere di ognuno. La scrisse immaginandosi quello che Fermina Daza gli avrebbe risposto se lo avesse amato tanto quanto quella creatura sprovveduta amava il suo pretendente. Due giorni dopo, senza ritardi, dovette scrivere anche la risposta dell’innamorato con la calligrafia, lo stile e il tipo di amore che gli aveva attribuito nella prima lettera, e fu così che finì per trovarsi coinvolto in una corrispondenza febbrile con se stesso. Prima di un mese, tutti e due andarono separatamente a ringraziarlo per quello che lui stesso aveva proposto nella lettera dell’innamorato e accettato con devozione nella risposta della ragazza: si sarebbero sposati.
Solo quando ebbero il primo figlio si resero conto da una conversazione casuale che le lettere di tutti e due erano state scritte dallo stesso scrivano, e per la prima volta andarono insieme al Portico per nominarlo padrino del bambino. Florentino Ariza si entusiasmò tanto per l’evidenza pratica dei suoi sogni che trovò il tempo per scrivere un Segretario degli innamorati più poetico e ampio di quello che fino a quel tempo si vendeva per venti centesimi sulle porte e che mezza città conosceva a memoria. Catalogò le situazioni immaginabili in cui avrebbero potuto trovarsi Fermina Daza e lui, e per ognuna di esse scrisse tanti modelli quante alternative di andata e ritorno gli parvero possibili. Alla fine ebbe un migliaio di lettere in tre tomi tanto completi quanto il dizionario di Covarrubias, ma nessuno stampatore della città si arrischiò a pubblicarli e finirono in qualche abbaino della casa, con altre carte del passato, perché Tránsito Ariza si rifiutò di dissotterrare le anfore per svendere i risparmi di tutta la sua vita in una follia editoriale. Anni dopo, quando Florentino Ariza ebbe mezzi propri per pubblicare il libro, gli costò fatica ammettere la realtà che ormai le lettere d’amore erano passate di moda.

Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera, trad. di C. M. Valentinetti, Mondadori





C'è stato un tempo, quando ero bambino, forse perché ero cresciuto in mezzo a libri e librai, in cui volevo diventare uno scrittore e vivere come il protagonista di un melodramma. Queste fantasie infantili erano ispirate da uno straordinario manufatto esposto in un negozio di calle Anselmo Clavé, proprio dietro al palazzo del Governo Militare. L'oggetto della mia adorazione, una magnifica stilografica nera decorata da un tripudio di fregi, splendeva al centro della vetrina come un gioiello della corona. Il pennino, un delirio barocco in oro e argento finemente incisi che brillava come il faro di Alessandria, era un prodigio in sé. Quando uscivo a passeggio con mio padre non avevo pace finché non mi portava a vedere la penna, appartenuta, a suo dire, nientemeno che a un imperatore. Io ero sicuro che con una tale meraviglia si potesse scrivere qualsiasi cosa, da un romanzo a un'enciclopedia, e anche lettere che non avrebbero avuto bisogno del servizio postale. Ero convinto che qualunque messaggio scritto con quella penna sarebbe arrivato a destinazione, anche nel luogo misterioso dove, secondo mio padre, si trovava la mamma.
Un giorno decidemmo di entrare nel negozio e scoprimmo che si trattava della regina delle stilografiche, una Montblanc Meinsterstück a serie limitata, appartenuta, così asseriva il negoziante, nientemeno che a Victor Hugo. Da quel pennino d'oro, ci informò, era scaturito il manoscritto de I miserabili.
«Proprio come la Vichy catalana sgorga dalla sorgente di Caldas» aggiunse.
Ci disse di averla acquistata da un collezionista venuto da Parigi, dopo essersi accertato che fosse autentica.
«E quale sarebbe, di grazia, il prezzo di questa fonte miracolosa?» chiese mio padre.
Udendo la cifra impallidì, ma ormai io mi ero perdutamente innamorato. Il negoziante, forse pensando di avere di fronte due scienziati, snocciolò una serie di dati incomprensibili sulle leghe di metalli preziosi e le lacche dell'Estremo Oriente e poi passò a esporci una teoria rivoluzionaria su emboli e vasi comunicanti, tutti elementi dell'inarrivabile arte teutonica che consentiva a quel miracolo della tecnologia di imporre la sua supremazia grafica. Va detto però che il negoziante, benché mio padre e io avessimo un aspetto da poveracci, caricò di inchiostro la penna perché potessi tracciare il mio nome su una pergamena e inaugurare una carriera letteraria non meno brillante di quella di Victor Hugo. Quindi, dopo averla lucidata con un panno, l'uomo adagiò la regina delle stilografiche sul suo trono d'onore.
«Magari un altro giorno» mormorò mio padre.
Usciti dal negozio, mi disse che non potevamo permettercela. Le entrate della libreria erano appena sufficienti per tirare avanti e pagare la retta della mia scuola. La stilografica Montblanc del venerabile Victor Hugo era destinata ad attendere. Non dissi nulla, ma il mio volto dovette tradire una profonda delusione.
«Faremo così» propose mio padre. «Quando inizierai a scrivere, torneremo qui e la compreremo.»
«E se nel frattempo la vendono?»
«Nessuno la comprerà, stai tranquillo. Ma se dovesse succedere, chiederemo a don Federico di farcene una uguale. Sai che quell'uomo ha le mani d'oro, no?»






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